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Il gioco del ‘lazo’ - 1° parte
di LittleMargot
31.05.2015 |
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"“Quale spettacolo?”, chiese Patricia..."
Era metà pomeriggio di una soleggiata giornata di fine Aprile quando dalla piazza di Togram City si notava una nuvola polverosa che stava venendo avanti sulla strada che proveniva da Tucson. Solo fino a 20 anni prima Tucson faceva parte del Messico quando, nel 1853, con ‘l’Acquisto Gadsden’, passò agli Stati Uniti. Nonostante non fosse una città che contasse numerosi abitanti, da 6 anni era la capitale del “Territorio confederato dell’Arizona”. Numerosi villaggi erano sorti in quel vasto territorio che prometteva bene per i cercatori di minerali preziosi da quando la corsa all’oro in California (1853) aveva dato speranze di vita migliore a una moltitudine di persone. Cinque anni prima si era iniziata la costruzione di Phoenix sul fiume Salt, mentre già da 9 anni si era costituita la contea di Yuma, la cui città più importante, Yuma per l’appunto, si trovava presso i fiumi Gila e Colorado, nonché al confine con il Messico e la ricca California e, grazie alla sua particolare posizione, il suo territorio prometteva bene anche per l’agricoltura e l’allevamento. Togram City distava una decina di miglia da Yuma, nella direzione verso Tucson, e, vista la distanza, per la persona che stava in quella carrozza si trattava del secondo giorno di viaggio, e forse anche del terzo, con tappa magari a Gila Bend, una cittadina agli albori fondata l’anno prima, nel 1872.Due splendidi occhi azzurri sotto ad una magnifica capigliatura bionda osservavano, senza un minimo di entusiasmo, l’avvicinarsi di quella nube di polvere. Lei sapeva bene di chi si trattava e, pertanto, col suo incedere sicuro ed anche seducente, tornò nel suo ufficio dove senza ombra di dubbio avrebbe presto ricevuto una certa visita. Poco dopo vide la carrozza che, trainata da due cavalli, le passava davanti ad andatura moderata. Sentì distintamente l’ordine dei conduttori per far fermare i cavalli mentre le voci confuse e bisbigliate di apprezzamenti ed ossequi non facevano sulla sua pelle altro effetto se non quello dell’orticaria. Sentì il classico ‘grugnito’ di ringraziamento verso i suoi aiutanti, nonché il rumore di quei passi pesanti, l’unica cosa che sperava era quella di non dover sentire anche l’aroma del sigaro, speranza fallace.
“Ben ritrovata, mia piccola sceriffa”, esordì James Worthon, un uomo di cinquantacinque anni, aitante e corpulento, alto quasi un metro e novanta, sposato, con tre figli, nonché sindaco di Togram City già da otto anni, ma che viveva con la sua famiglia nel circondario, a mezzo miglio dal centro. Sfoggiava dei baffoni alla messicana, che mal s’intonavano col suo nome. Frequentava con una certa costanza l’ufficio del tutore della legge da quando, tre anni prima, sotto sua pressione fu nominata ‘sceriffa’ la bellissima Patricia O’Connor, una ragazza allora di venticinque anni, abilissima con la pistola e con la corda, ed anche con la spada, ma Worthon la volle in quella carica anche per poterla vedere con una certa ufficialità. Figlia unica, i suoi genitori (Jason O’Connor e Anne Doyle) perirono nell’incendio della loro fattoria, lei si salvò per miracolo, ma tutto era andato perduto, e se c’era un’altra cosa che non voleva perdere era l’onore, in tutti i sensi, mai era stata con un uomo in vita sua, e non aveva nessuna idea di darsi proprio al sindaco Worthon, non era per niente nella sfera delle sue preferenze ma, talvolta, si può restare succubi dei favori ed aiuti ricevuti.
“Bentornato, signor sindaco”, disse Patricia sfoderando un genuino sorriso senza malizia, sperando che lui non avesse secondi fini, ma la faccia di James non lasciava adito ad alcun dubbio.
“Non preoccuparti”, la rassicurò James, “lo sai che mi basta solo un po’ di contatto, qualche bacio, un po’ di carezze... lo sai che mi basta guardarti per andare tutto in zucchero e sciogliermi davanti a te come neve al sole”.
Patricia avrebbe voluto mandarlo al diavolo ma doveva sopportare ancora, non vedeva l’ora di tornare ad essere libera, sentiva che mancava poco, ma doveva sopportare. Si alzò e fece strada, lui s’inebriava nel vedere quel meraviglioso corpo, il modo in cui camminava non faceva altro effetto se non quello di aumentare la sua eccitazione; avrebbe voluto ‘sfondare’ come un ariete, ma sapeva bene che non doveva superare certi limiti, l’immagine innanzitutto! Quel giubbotto in camoscio chiaro con le frange, la camicetta bianca con i ricami delle sue iniziali, la cinturona con i caricatori e la pistola nella fondina, i blue-jeans che mettevano in risalto due natiche da urlo scendendo stretti su quelle gambe lunghe e affusolate alla cui fine c’era un paio di stivali color beige con ricami e gli speroni in basso non facevano altro che aumentare la fantasia erotica di James che tra sé ringraziava Levis Strauss per aver introdotto i blue-jeans nel 1853 durante la corsa all’oro in California, con il suo negozio a San Francisco dove vendeva attrezzi e abiti per i cercatori d’oro. Le celle di prigionia erano vuote e nessuno da fuori sarebbe andato in quell’ufficio, avendo visto chi era appena entrato.
James pose le sue grandi mani su quelle spalle perfette, ancorché delicate anche se forti, a Patricia per un attimo si bloccò il fiato in gola. La girò verso di sé, e sempre tenendola per le spalle la fece arretrare fino ad una parete, scese con una mano ad accarezzarle le cosce, risalì e le sbottonò la camicetta nella parte più alta, scostò il reggiseno che mise in risalto quei piccoli seni sui quali spiccavano due capezzoli che parevano ciliege mature. Nonostante non sopportasse tutto ciò doveva fare in modo che lui ne restasse soddisfatto al più presto possibile, era il sistema migliore per levarselo di torno quanto prima. La sua mente andò allora nei ricordi di un passato che era iniziato quindici anni prima in una fattoria dove conobbe la migliore nonché più leale e sincera di tutte le sue amicizie, una persona di cui perse le tracce quando morirono i suoi genitori ma che ritrovò quasi per caso alcuni anni dopo, poco prima della nomina a sceriffa di Togram City, una persona al cui solo pensiero lei riusciva ad arrivare ad un’estasi orgasmica. Quel pensiero si materializzò nella sua mente, ricordando come tutto cominciò, una mattina d’estate del 1858, in una fattoria presso Vajrennah, a dieci miglia da Togram City (sempre sulla strada verso Tucson e Phoenix, vicino al fiume Gila), quando aveva iniziato, così per gioco ed anche per aiutare la famiglia, ad allenarsi a catturare vitelli lanciando la corda fatta a cerchio con un nodo scorsoio particolare, il ‘lazo’. Tanto era il divertimento che, restata da sola su quel prato con quella persona, volle provare a catturarla come fosse un vitello, così, di sorpresa, mentre era di spalle. Quel lancio fu così perfetto che la corda si strinse ad arte attorno a quel corpo che teneva le braccia distese lungo i fianchi, braccia che rimasero immobilizzate, nonostante il tentativo di liberarsi. Patricia vedeva ancora quell’immagine, con lei che tirava con giusta forza la corda, sentiva l’espressione divertita di quella persona ormai sua prigioniera che si dibatteva inutilmente, e appena furono fianco a fianco si girarono viso a viso, le labbra si sfiorarono, un istante dopo si cercarono, si toccarono... le lingue timidamente uscirono dalle loro tane, si toccarono con le punte... fu come una scarica elettrica in quei due corpi, e il ‘gioco del lazo’ si trasformò come d’incanto in un gioco ben più serio ed importante, mentre dentro la casa, da dietro una tenda di una stanza del piano superiore, due occhi scintillanti e benevoli osservavano, con discrezione e senza essere notati, quelle effusioni d’amore adolescenziale. Mentre la mano di James sfiorava uno dei capezzoli, un sorriso illuminò il volto di Patricia... “Sì.... sì... ancora...”, cominciò lei con voce suadente ma tenendo gli occhi chiusi, immersa in quel suo bellissimo sogno segreto di cui solo una terza persona più un’altra ne era a conoscenza oltre i due protagonisti principali, ma lei questo ancora non lo sapeva.
“Ohhh... senti qui che turgidità” disse James continuando ad accarezzarle i capezzoli. Patricia sollevò una gamba e gli strofinò delicatamente una coscia, poi pose la punta dello stivale sinistro sotto gli attributi di James che provvide subito a slacciare la cintura dei suoi pantaloni e anche qualche bottone, tremava per l’emozione ed anche per l’erezione. Slacciò la cinturona di Patricia e un paio di bottoni, quanto bastava per passare. Prima però pose la mano sulle mutandine di lei, fece per abbassarle ma, come d’istinto, la mano destra di Patricia scese giù per prendere la mano intrusa ed allontanarla, James capì che stava per oltrepassare i limiti, non protestò e non insistette. Quando entrò nei pantaloni di Patricia questa ebbe un fremito, James pose le mani sotto le sue natiche e la sollevò facendola sedere su un alto tavolo. Patricia comprese che mancava poco alla chiusura dei festeggiamenti, quindi strinse le gambe per avvinghiarlo a sé, sempre però con in mente l’immagine di quel suo amore segreto. Doveva adesso cercare di eccitarlo anche psicologicamente con le parole più opportune. “Mia piccola Patricia... ti piace il tuo James, vero?... Vero?”, chiese lui.
Patricia roteò la testa facendo girare i suoi lunghi capelli biondi per schiaffeggiargli il viso: “Sìììì... sììììì... tigre!!!”, disse con accento e tono deciso premendogli la schiena con le dita che sembravano artigli. James aumentò la frequenza dei suoi movimenti e strofinamenti finché, poco dopo, esplose all’interno dei blue-jeans di Patricia. Si rilassò un attimo e si pulì alla meno peggio tirandosi su i pantaloni. Li riabbottonò, strinse e chiuse la cintura, infine si mise il cappello in testa.
“Ci vediamo domani mattina, devo parlarti di una cosa importante”, disse subito.
“Bene”, rispose Patricia esausta per lo sforzo mentale e morale, non per quello fisico. James si voltò, dandole le spalle, e si avviò lentamente sistemandosi al meglio la camicia per dare un’aria di rispettabilità mentre attraversava la piazza per andare dal barbiere, non prima di passare al saloon per un goccetto assieme al giudice Sullivan, suo amico di lunga data nonché nolente succube.
Appena James fu fuori dall’ufficio Patricia scese dal tavolo e si diresse subito ai servizi igienici. Si pulì e disinfettò con meticolosa attenzione prima di tornare alla sua scrivania per sbrigare alcune pratiche, richieste di allevatori e note su alcune recenti rapine avvolte da un senso di mistero. Erano appena passate le 7 quando decise di chiudere l’ufficio per andare a casa, dove l’attendeva la sua quotidiana solitudine. Attraversando la piazza per andare a prendere il suo cavallo udì un frastuono all’interno del saloon, grida minacciose. Con calma e lucidità, la prima cosa che fece fu quella di rendere libera la fondina sbloccando il bottoncino che teneva il copricustodia.
“Cosa sta succedendo qui?”, chiese in tono autoritario facendo il suo ingresso in quel locale sbattendo di lato una delle due ante con un poderoso calcio tenendo la pistola saldamente impugnata, mentre all’interno il vociferare minaccioso si dimezzò quasi all’istante.
“Il solito ubriacone che molesta le pupe del balletto”, disse un tipo robusto, uno dei contadini al servizio dei Thomson, una famiglia di origini scozzesi. Patricia ripose la pistola nella fondina.
“Se Edward è ubriaco è anche perché lo fate bere quando ha due soldi in tasca, e a voi la cosa diverte, vero?”, iniziò Patricia, “Voi, non vi vergognate?”, disse rimproverando John Williams, il gestore del saloon, “cosa mi rispondete, eh?”. A questa domanda giunse subito in risposta, alle sue spalle, un assordante rutto seguito da una fragorosa risata da parte di quasi tutti gli avventori. Patricia si voltò di scatto, “Chi l’ha fatto è incivile, e incivile è chi ne gode!”, disse irritata.
“Ma chi ti credi di essere, pupa?!”, si fece largo Henry Davies, un mandriano che in quel momento aveva in corpo un bicchierino di troppo, “Avanti, sparisci di qui, o avrai bisogno del becchino per uscire”, e gli altri trattennero il fiato.
“Non sfidarmi!”, disse lei decisa fissandolo negli occhi. Incurante del monito, Henry fece per prendere la sua pistola, ma la mossa di Patricia fu fulminea nell’estrarre la sua arma e sparare un colpo secco che portò via dai pantaloni di Henry la fondina con quello che conteneva, prima che lui la potesse prendere. Henry sbiancò in volto e svenne, i presenti tirarono un sospiro di sollievo. Una mano si poggiò sulla spalla di Patricia, che si girò di scatto con la pistola impugnata, e le si mozzò il fiato in gola. “Giudice Sullivan... che spavento, per un attimo avevo temuto di essere aggredita!”.
“Tranquilla”, disse Damien Sullivan, un uomo di media statura e corporatura, dall’aspetto bonario, sulla sessantina, mentre Patricia ripose la pistola. “Ascoltate bene”, disse, “faremo finta che nulla sia successo, svegliate Henry con l’acqua fredda e, se non si rimette in piedi, mettetelo dentro una carriola e portatelo in una cella nell’ufficio della nostra brava sceriffa! Quanto a voi, Edward, mi offro di accompagnarvi di persona in cella, una notte al fresco farà bene anche a voi!”.
“Ma io non ho fatto nulla di male...”, iniziò Edward, “io...”.
“Voi avete rotto la gamba di quel tavolo”, s’intromise John Williams, “sono un dollaro e mezzo di danno, li avete per caso?”.
“No... no... Williams, non ho più soldi qui...”, rispose Edward biascicando le parole.
“Tenete”, disse Sullivan avvicinandosi al bancone. Poco dopo, mentre due uomini caricavano Henry su una carriola, Sullivan condusse Edward verso le celle tenendolo a braccio mentre Patricia, davanti, faceva strada. “Edward, è per il tuo bene che lo facciamo”, gli disse, “se rientri a casa conciato così non oso pensare cosa ti farebbe tua moglie, domattina starai meglio e potrai tornare a casa, e non dimenticare di andare a dipingere lo steccato e la facciata della casa del signor Taylor, il padrone dell’emporio e, soprattutto, non andare a sperperare subito i soldi in quel posto lì, che ci siano o no quelle belle ragazze... piacciono anche a me, non te lo nascondo... cerca di controllarti”.
“Grazie”, disse Edward che a fatica riusciva a stare in piedi. Poco dopo giunse il vice sceriffo, un trentenne atletico, Gordon Hall, avvisato da uno dei clienti del saloon, abitava con la sua famiglia in una casa subito dietro la piazza del paese.
“Siete davvero gentile, giudice Sullivan”, disse Patricia uscendo dall’ufficio assieme a lui, “magari il sindaco Worthon avesse almeno in parte il vostro carattere”.
“E’ un tipo rude. Ciò che più ama, dopo sé stesso, sono il denaro e le belle donne, ma quello per le donne non è amore... vuole solo possederle sessualmente, mi capite, vero?”, spiegò Sullivan.
“Certo che capisco”, replicò Patricia.
“E state anche sopportando, pagando lo scotto dell’aver ricevuto aiuto proprio da quella persona! Adesso avrebbe anche ambizioni politiche in grande, non capisco cosa abbia in mente. A Tucson ha incontrato il deputato George Wilson, ma dietro a lui c’è il braccio destro del governatore, un affarista senza scrupoli, Joseph Walker, di certo Worthon non ne è a conoscenza. Non so che piani abbiano, ma Worthon si sta facendo prendere in un meccanismo molto più grande di lui, mira alle alte sfere. Oggi pomeriggio mi ha perfino detto che potrebbe anche essere il prossimo senatore dell’Arizona e rappresentarla al Congresso a Washington! Ma cosa gli hanno messo in testa?! Sembra un uomo che sa badare a sé stesso, ma la vanità...”.
“...la vanità può condurre anche alla rovina”, interruppe Patricia.
“Sagge parole”, proseguì Sullivan, “ma per capirlo dovrà andare di persona a sbattere contro il muro. A Washington, al massimo, se ci arriva, potrebbe fare il vice portinaio in un albergo di quarta categoria, ammesso che ce ne siano di categoria così bassa. Se penso che un uomo così ha tutti quei soldi, non ci vuole molto a capire come abbia fatto a farli, non sono certo soldi suoi, ma chi riesce a dimostrarlo? Favori qua e la, e giù soldi... per quello quei tizi lo stanno coccolando per bene, vogliono mettere le mani in questa zona, e hanno bisogno dei soldi di Worthon che dovrebbe comprare una tenuta, come volevano fare anche altri a Vajrennah e nei dintorni, ma qualcuno li ha alleggeriti del denaro, e non possono reclamare nulla, certo, era denaro sporco. Quei signori, adesso, sono molto irritati, e puntano su Worthon, che, a suo dire, dovrebbe investire 120.000 dollari”.
“Cosa?”, chiese Patricia con fare incredulo, “120.000? Un boccone ghiotto e interessante!”.
“Proprio così!”, riprese Sullivan, “Worthon si sente sicuro del fatto suo, vuole acquistare la tenuta di Lady Margaret O’Brien e vorrebbe mettere le mani non solo sulle sue proprietà terriere, ma anche su certe altre sue proprietà puramente personali ed intime, e sapendo quali sono i suoi gusti sarebbe anche capace di lasciare sua moglie per impalmare Lady O’Brien, una donna di quarant’anni portati benissimo, bellissima e sola. Lady O’Brien è in difficoltà economiche, e questo basta a Worthon, o meglio, a chi lo sta manovrando, per comportarsi di conseguenza”.
“Che personaggio!”, disse Patricia con sdegno e con gli occhi che non nascondevano un sentimento di rabbia misto ad apprensione.
“Merita una lezione!”, riprese Sullivan, “Spero, anche se non dovrei per la mia posizione, che quel denaro prenda un’altra strada, come negli altri tre casi, con le rapine di questi ultimi due mesi. Carlos Fernandez, lo sceriffo di Vajrennah, dieci giorni fa mi ha confidato che a fare quelle rapine, di sera, a soldi appena giunti in loco ma non ancora posti in banca, è stata sempre una persona sola, una figura che ha dell’incredibile, tutta ammantata di nero, su di un cavallo nero come la notte più fonda. Aveva uno sguardo allucinato mentre ne parlava, come fosse una leggenda, e si riferiva a quanto accadde dai Bradley tre giorni dopo la prima rapina. La terza ed ultima rapina, in cui sono stati rubati i soldi destinati all’acquisto della tenuta dei Linch, è stata fatta venti giorni fa, e alcuni giorni dopo la rapina sono stati trovati, legati come dei salami, quattro scagnozzi che poi hanno confessato di essere stati incaricati del furto di bestiame ai danni dei Linch ma di non saper nulla del tentato furto ai danni dei Bradley e dei Doherty, la stessa cosa anche con loro, legati alla seconda rapina nel senso che anche in quel caso i soldi servivano a comprare la loro tenuta, e due sere dopo è stato tentato di rubare il loro bestiame. Anche in quel caso è andata buca, i ladri però sono riusciti a fuggire. Capisci? I tentati furti di bestiame riguardano tre fattorie e tenute che avrebbero dovuto essere comprate da certi signori o, meglio, dai loro tirapiedi, con soldi di dubbia provenienza e di cui sono stati alleggeriti, perciò, nessuna denuncia, anche perché non potevano certo dimostrare una provenienza pulita di quel denaro, quindi hanno dovuto accusare il colpo e tacere... meglio così”.
“Dite sia stata una sola persona a fare le rapine, che nesso c’è con quei quattro sciagurati che sono stati trovati legati come salami?”, chiese Patricia con fare divertito più che per curiosità.
“Due erano dentro un casolare abbandonato, e altri due a mezzo miglio di distanza, in mezzo ad un campo, questi ultimi erano legati assieme, di schiena, come se fossero stati catturati nello stesso momento. Uno dei due che erano nel casolare sembrava inebetito e balbettava, parlava del ‘diavolo’, e aveva segni di frustate sulle natiche e sulla schiena”, disse Sullivan.
“Perché mi fate tutte queste confidenze?”, chiese Patricia.
“Domani con Worthon andrete a Vajrennah, incontrerete Lady O’Brien alla locanda centrale! Ci sarà anche il deputato Wilson che è già a Vajrennah, oggi era assieme a Worthon.”, spiegò Sullivan, “Lui non vuole che accada nulla che possa compromettere il suo acquisto, vuole che si organizzi un piano per evitare la rapina e, magari, tendere una trappola per catturare il rapinatore solitario. E, poiché i soldi giungeranno qui, a Togram City, visto che siete voi il tutore dell’ordine, se catturerete quella persona misteriosa ci sarà un premio di 5.000 dollari. Non so in cosa abbiano coinvolto Worthon e perché si sia lasciato coinvolgere, secondo me lo stanno usando, lui del suo non ha certo il denaro per comprare la tenuta di Lady O’Brien, perciò devono essere soldi sporchi, scambi di favori presumo, ma non ci sono prove. Credetemi, Patricia, avete l’occasione perfetta per poter far valere quello che siete e, una volta intascata la taglia, potrete andare a cercare fortuna in qualche posto migliore, lontano da qui, e, soprattutto, dalle mani di Worthon. Io vi vedrei bene a San Francisco, dove per una splendida e intelligente ragazza come voi ci sono molte opportunità!”.
“Non vi deluderò, giudice Sullivan! Un’occasione come questa non si può certo perdere, potrò finalmente sistemare molte cose della mia vita, passata, presente e futura!”. Il cavallo di Patricia sembrava impaziente di sgranchirsi le gambe, lei lo accarezzò, come per dirgli di starsene tranquillo che tra un po’ avrebbe potuto correre. “La saluto, signor giudice, buona serata”, disse Patricia montando a cavallo con un’agilità felina, sorridendo serenamente, “adesso ho bisogno di farmi una bella cavalcata per liberarmi la mente”.
“In bocca al lupo, allora, e veda di non usare quella parolina se nelle vicinanze c’è il sindaco Worthon, non si sa mai cosa potrebbe intendere lui, è abile a girare il senso delle parole”, le fece Sullivan guardandola con ammirazione, ritta e fiera sul suo cavallo. “Quanto sei bella...”, pensò.
“Ah! Ah!”, disse Patricia con decisione spronando il cavallo con i tacchi degli stivali e pungolandolo con gli speroni, facendolo partire al galoppo.
“In quanti vorrebbero essere al posto del tuo cavallo!”, mormorò il giudice Sullivan quando Patricia fu appena partita.
La mattina seguente, poco prima delle 9, Worthon si presentò da Patricia che stava sbrigando le formalità di rito per il rilascio dei due prigionieri di quella notte. “Firmate qui”, disse loro il vice sceriffo Hall che era già pronto per dare il cambio a Patricia visto che doveva assentarsi.
“Grazie ancora, signorina O’Connor”, disse Henry Davies a testa bassa e con voce sommessa, “ero annebbiato, non capivo niente, domando scusa”, e Patricia ricambiò con un gentile sorriso.
Venne il turno di Edward. “Mi raccomando”, disse Patricia, “lo steccato...”.
“E la facciata della casa del signor Taylor, certamente”, continuò Edward.
Appena quelli uscirono James Worthon entrò. Salutò Hall e andò diretto da Patricia la cui espressione faceva capire quanto desiderasse fare quella scampagnata in compagnia del sindaco. Poco dopo partirono, con andatura moderata, la cavalla del sindaco aveva un bel peso da sopportare e, forse, magari anche lei avrebbe preferito avere Patricia sulla groppa. Ad ogni modo, anche in quel caso Worthon doveva manifestare il fatto che si trovava molto a suo agio sopra una femmina. Il viaggio fu tranquillo e veloce, le dieci miglia per giungere a Vajrennah vennero percorse in un’ora e mezza scarsa. Fuori della locanda centrale c’era un calesse che riportava la dicitura ‘LMB’.
“Lady O’Brien è già alla locanda, ed anche il deputato Wilson che ha pernottato qui. Gran bella cosa una città con un’unica locanda, non si perde tempo a scegliere dove alloggiare!”, disse James sperando di far sorridere Patricia che però, di battute di quel tipo, ne aveva la nausea. Entrarono dentro. Al banco della ricezione c’era il padrone della locanda, un messicano di nome Alfonso Ramirez, di carnagione scura e con un paio di folti baffi, capelli scurissimi, di media statura e magrissimo, quasi scheletrico. “Qui non si mangia bene”, disse Worthon, “o forse il meglio di sé lo da solo agli ospiti paganti... eh eh eh eh... eh... beh... che fa, Patricia, non ride?!”.
“Ah, scusi, oh... sì... ah ah ah ah ah ah... divertente, davvero...”, rispose con uno sforzo sulle mascelle di cui si avvide il signor Ramirez che aveva già bene inquadrato i nuovi entrati.
“Abbiamo appuntamento con Lady O’Brien e il deputato Wilson”, disse James.
“Prego, seguitemi”, disse Alfonso conducendoli nel salone sul retro, una stanza rusticamente arredata. In poltrona stava una donna di media statura dall’aspetto gagliardo e fiero, un viso molto ben curato, capelli corvini e lisci sciolti sulle spalle, adornati da un cappellino con tre rose rosse. Portava un abbigliamento sobrio, un vestito di colore blu ricamato in pizzo e un po’ largo ai fianchi, con un volant che scendeva quasi alla caviglia, mezze maniche fino ai gomiti, guanti neri in pizzo e stivaletti neri alla caviglia, con tacco basso. Il deputato Wilson, trentacinquenne di buona statura, aveva un fisico asciutto e longilineo. Sul viso, che appariva duro e scavato, spiccavano due occhi marroni, un naso appuntito e una rada barba diffusa con un pizzetto pronunciato sotto il mento. Vestiva elegante, un completo giacca e pantaloni avorio confezionato da una sartoria di Londra, cintura marrone scuro e bottoni dorati, orologio a ‘cipolla’ con catenella dorata, una camicia bianca di puro lino e un cappello tinta chiara a falde che teneva in mano per rispetto a Lady Margaret mentre le scarpe bianche, di ottima fattura, provenivano dall’Italia: a guardarlo sembrava un candido angelo. Non servirono molte presentazioni: James e Patricia erano ben noti a Vajrennah, Lady O’Brien lo era a Togram City. L’ospite d’onore, dunque, era il deputato Wilson, presente solo per accertare che si potesse concludere l’affare di cui aveva parlato nei giorni precedenti con Worthon.
“Lady O’Brien”, iniziò Worthon, “ho preso tutte le misure necessarie affinché il nostro affare vada a buon fine, come ho spiegato e già garantito l’altro giorno anche al deputato Wilson”.
“Posso sapere in cosa consistono queste misure?”, chiese Margaret.
“Ecco”, iniziò James, “il rapinatore solitario ha colpito sempre a sera tarda, quando è più facile dileguarsi e far perdere le tracce. Noi, invece, cambieremo orario, molto semplice”.
“Potrebbe spiegarsi meglio, sindaco Worthon?”, chiese Margaret.
“Per voi io sono James...”, replicò.
“Sindaco Worthon, stiamo parlando di affari, risponda alla mia domanda in maniera precisa, altrimenti potrei anche cambiare idea e non vendere più la mia tenuta”, disse Margaret decisa.
“Suvvia, non posso permettere che la bella Lady O’Brien muoia di stenti e...”
“La conversazione è finita, arrivederci”, disse Margaret alzandosi in piedi.
“No, aspettate, vi chiedo scusa”, disse subito James, mentre Wilson sorrise incrociando il suo sguardo con quello di Patricia O’Connor che gli aveva già prodotto uno strano senso di strettezza dei pantaloni nella parte alta delle gambe, o qualcos’altro aveva assunto una dimensione ben maggiore di quella normale a riposo. Margaret si girò verso la poltrona da cui si era alzata e James, in uno slancio di cavalleria, animato però da altri fini, s’inchinò per baciarle la mano. “Vede, Lady O’Brien, oggi è martedì 29 Aprile e i miei soldi, che sono in una banca di Yuma, saranno a Togram City tra due settimane, il 12 Maggio, di lunedì, poco prima del tramonto. Facendo circolare la voce che concluderemo il nostro affare martedì 13 il rapinatore solitario capirà che i soldi arriveranno il giorno prima. I miei uomini saranno vigili e appena metterà le mani sul malloppo lo cattureranno”.
“Perché non facciamo l’affare direttamente in banca a Yuma col notaio?” chiese Margaret.
“Ma così non c’è l’esca giusta per catturare il rapinatore, che in questo caso non verrebbe, e io non potrei dare l’immagine del sindaco che ne ha favorito la cattura”, spiegò Worthon.
“Ah, è questo allora che vi interessa, prendere due piccioni con una fava”, disse Margaret, “e se intuisce che si tratta di una trappola e non fa la rapina? E se invece riesce a fuggire lo stesso?”.
“Ho un’idea, visto che il sindaco darà 5.000 dollari per la cattura!”, disse Patricia, “Si fanno arrivare i soldi il 12 Maggio ben prima del tramonto, senza scorta o trappole tese, come fosse nulla di particolare. Se il rapinatore intuisce che c’è il denaro, interverrà! Noi metteremo in atto la trappola già nei prossimi giorni. Da Togram City non ci sono tante alternative per la fuga, solo due, e dalle colline poco fuori la città si domina tutto il panorama. Io potrei già fare un giro per trovare la zona migliore dove appostarmi il giorno della consegna dei soldi, scrutare cosa succede in città grazie al mio binocolo, e quando il rapinatore colpirà, e sono certa che colpirà, guardo subito che strada prende per la fuga e mi lancio al suo inseguimento in modo da tagliargli la strada e catturarlo con la refurtiva! Affinché la rapina avvenga basterà dire al vice sceriffo Hall di non opporre resistenza e farsi sopraffare senza comunque fare insospettire il bandito, siete d’accordo?”.
“Forse sto sbagliando anch’io, come possiamo essere sicuri che colpirà?”, chiese Worthon.
“Negli altri casi di sicuro è trapelato qualcosa sul quando e dove arrivavano i soldi, anch’io lo sapevo, ma io non ho giurisdizione a Vajrennah e le mie ricerche nella zona di Togram City non hanno dato frutto. Si agirà normalmente come negli altri casi, il resto verrà da sé. Vi posso garantire sul mio onore che sarà l’ultima rapina!! E ho degli ottimi motivi, cosa ne dice signor sindaco?”.
“Certo, vero...”, disse James.
“La giovane e balda sceriffa ha delle idee brillanti, nonché una più che ottima motivazione per far andare tutto nella maniera più giusta, per cui io non ho nulla da obiettare”, disse Wilson.
“Concordo anch’io”, disse Margaret, “siamo nelle sue mani, signorina O’Connor!”.
“Perfetto, allora”, disse James, “è quasi ora di pranzo, ci fermiamo qui?”. Gli altri assentirono, James fu il primo ad avviarsi verso i servizi igienici, seguito da Patricia. Aprì la porta, notò una domestica piegata sul pavimento intenta a pulire per terra, al suo fianco una tinozza d’acqua sporca e una pulita. “Visto che è già in posizione, mi dia una pulita agli stivali”, disse James con voce tonante, “le strade sono troppo polverose qui”.
Rosalinda Gomez, una bella ragazza di quasi 28 anni con i capelli scuri e lunghi raccolti in un ‘chignon’, sollevò lo sguardo verso quell’uomo che incombeva imponente su di lei mentre Patricia, che stava dietro, non poté trattenere una smorfia di disappunto. Rosalinda fu rapida ad immergere uno straccio adatto allo scopo nella tinozza di acqua pulita e iniziò a pulire le suole e i gambali degli stivali del sindaco Worthon avendo cura di non ferirsi con gli speroni. “Brava!”, disse infine James, “Verrò ancora a trovarla, potrei farle fare qualcosa di meglio che l’inserviente in questa locanda”.
“Muchas gracias señor”, disse Rosalinda baciando gli stivali appena puliti, “a sus ordenes, si las necesidades”.
“Visto come si fa?”, si rivolse poi a Patricia, “Ne approfitti, dai, non costa niente!”.
“Non posso fare una cosa simile”, obiettò Patricia.
“Non mi faccia irritare più del dovuto, non vorrei dover incrementare le mie visite nel suo ufficio per spiegarle che a me non si disobbedisce”, fu perentorio James. Quindi Patricia si avvicinò a Rosalinda che iniziò subito a lustrarle gli stivali, mentre James ghignava sadico. “L’aspetto in sala da pranzo, e lei faccia un buon lavoro, altrimenti sarò costretto a chiedere che venga licenziata!”.
Alcuni minuti dopo Patricia entrò in sala da pranzo con gli stivali in perfetto ordine e visibilmente soddisfatta.
“Stasera c’è uno spettacolo di cabaret al teatro qui vicino, potreste anche trattenervi qui per stanotte”, propose il deputato Wilson.
“Quale spettacolo?”, chiese Patricia.
“Una vera sciccheria, anche Lady O’Brien verrà a vedere, me l’ha proposto lei. Ci saranno balletti, spogliarelli, giochini e scenette, condotti dalla superba Lolita Montero”, spiegò Wilson.
“Certo che ci fermeremo qui!”, disse James avvertendo di colpo l’erezione nei suoi pantaloni, “Lolita Montero, la divina! Quella sì che ti fa girare la testa, perfino io mi butterei ai suoi piedi, sotto i suoi tacchi”, disse mentre Margaret sorrideva dietro ai suoi occhi scintillanti incontrando lo sguardo ammiccante di Patricia.
Alle 9 di sera la platea del teatro di Vajrennah era già gremita di un pubblico per la maggior parte maschile. Il deputato Wilson ottenne facilmente i migliori posti a sedere per lui e i suoi ospiti, tra cui anche lo sceriffo Fernandez e il sindaco Maddok. Questi si sedette tra Worthon e Fernandez. A sinitra di Worthon, andando verso il centro sala, c’era il deputato Wilson, poi Lady O’Brien e quindi Patricia. C’era un brusio infernale, tutti mormoravano in attesa che entrasse in scena Lolita Montero, Patricia e Margaret chiacchieravano incessantemente, Worthon non sentiva nulla di quello che dicevano, ma non era interessato, era molto occupato a fare battute di spirito, e di un certo tipo di spirito, assieme al suo omologo Maddok mentre Fernandez li ascoltava ridendo, ma senza entusiasmarsi troppo. L’orchestra iniziò a suonare ed entrarono in scena delle ballerine molto graziose che esibivano le cosce con maestria e seduzione, muovendole ritmicamente su degli stivaletti tinta oro ben stretti alla caviglia. Sopra i volant facevano bella mostra dei succinti bustini con le stringhe sulla schiena, in raso nero, braccia e spalle erano libere. Facevano roteare il bastone con cadenze precise al battere dei tacchi. Worthon, e non solo lui, le stava mangiando con gli occhi. La musica era forte, e il roteare dei fianchi richiamava molti ‘urrah’ e ‘yahhuu’ da parte del pubblico. Entrarono anche quattro ballerini, per la coreografia, che sortirono battute del tipo “uscite!, pussa via, ci siamo qua noi!”, il pubblico era entusiasta. La musica rallentò e assunse un andamento ritmico particolare con un rullio di tamburi, sempre più in crescendo. Ed ecco una finta esplosione e una nube di polvere scintillante, ed una figura alta e slanciata che si fa avanti in quella cortina fumogena, mentre il pubblico cominciava già ad andare in delirio. Poco oltre la trentina, alta di statura, un metro e settantacinque, fisico mozzafiato, fece il suo ingresso Lolita Montero, tra una valanga di applausi. Indossava un corsetto nero in pelle, con stringhe rosso acceso sulla schiena, stretto a far risaltare ancora di più il suo fisico atletico ed un seno prosperoso coperto da coppette ricamate in color oro che facevano sbucare soltanto i capezzoli. Una cinturona reggeva un leggero volant che copriva le mutandine o, meglio, le avrebbe dovute coprire se ci fossero state. Chi stava nelle prime due file se ne accorse subito, Margaret e Patricia si guardarono in volto ammiccanti, il deputato Wilson non si scompose, mentre Worthon si protrasse col busto in avanti e la sua mano destra meccanicamente si fece strada da sola sotto i pantaloni, ed anche Maddok dopo un attimo fece la stessa cosa. Anche lo sceriffo Fernandez si sentiva eccitato, ma teneva un po’ di contegno, osservò Worthon che pareva potesse cadere da un momento all’altro tirato giù dal peso dei suoi baffi, tanto si era spinto in avanti che non si capiva come facesse a stare in equilibrio. Le gambe di Lolita erano lunghe ed affusolate, avvolte in calze autoreggenti leggere, ricamate in pizzo, e sotto facevano bella mostra un paio di stivali neri lucidissimi con bordature color rosso e oro, un discreto plateau con tacchi da 3 pollici e finitura a punta sulla parte anteriore. I guanti in seta lunghi oltre il gomito davano a Lolita un aspetto molto padronale, come il cappello a cilindro con rosa rossa che svettava su quei capelli neri, ariosi e lunghi fino sotto le atletiche spalle. I tamburi smisero di rullare col botto finale dei piatti metallici, e una voce da dietro il palco si fece subito sentire.
“Ed ecco qui, tutta per voi e per noi... Lolita Monteroooo!!!!”, e fu uno scroscio di applausi.
“Buenas noches queridos, buenas noches por todos las damas y caballeros”, iniziò Lolita con un inchino ad arte che mise bene in risalto il lato B oltre a far notare a tutti che il lato A era scoperto, aveva un sorriso smagliante che faceva brillare i suoi denti bianchissimi incorniciati in quelle labbra di color rosso acceso, gli occhi scuri e profondi col trucco la facevano apparire ancora più maestosa. “Estamos llegando al final de Abril”, continuò Lolita, “pero yo tan caliente... mucho calor... olèèè!”, disse facendo sbucare fuori un drappo rosso che sventolò al pubblico. Si muoveva sinuosamente tra il corpo di ballo, ogni tanto sul palco arrivava qualche fiore “Gracias amigos!”, diceva con prontezza. I numeri erano qualcosa di straordinario e verso la fine giunse il balletto a tre, in cui due altre ballerine si muovevano a tratti alternativamente e contemporaneamente attorno a lei, strusciandosi col suo magnifico corpo; il pubblico desiderava venissero chiamati dei volontari, ma ce n’erano troppi anche per trenta Lolite. Quel numero si faceva sempre più coinvolgente, Lolita spinse un po’ giù il reggiseno, e le altre due ballerine cominciarono a toccare prima uno e poi l’altro capezzolo mentre Lolita si girava in continuazione. Si chinavano, passavano le mani sul petto di lei e sui fianchi, all’interno del volant, con dolcezza e leggerezza sul suo clitoride, (e in quell’atto lei volgeva lo sguardo in alto ed allargava le braccia), scendevano assieme accarezzandole le cosce, e poi su al clitoride, la prendevano in mezzo e lei prendeva loro ponendole chine come in adorazione, le faceva rialzare prendendole per mano, anche loro due erano eccitatissime, non solo Lolita, ed assieme le baciavano i capezzoli mentre le mani coccolavano i fianchi per tornare al clitoride. Lolita si abbandonava sempre più a sé stessa finché nel finale, come esausta e quasi all’orgasmo, si lasciò andare mentre le due ballerine la presero in braccio, distesa, e la musica terminò con un sonoro ‘olè!’ con valanga di applausi. Lolita con un balzo felino e con un ‘toc’ seducente dei tacchi sul pavimento del palcoscenico si rimise ritta in piedi, accennò ad un inchino e terminò con un “olà, amigos!”. Un attimo di pausa. “Bueno, ahora una cosa especial... un gringo aqui! Ràpido... oh, estan demasiados! Yo elijo... sì esto caballero en la primera fila, que tiene bigotes, bueno! De hecho, hay un caballero en la primera fila que esta haciendo una imitacion perfecta de quel que yo quiero!”, disse Lolita guardando Worthon che si stava masturbando di nascosto (ma non troppo evidentemente) con la mano dentro i pantaloni e facendo lei stessa l’imitazione di quello che stava facendo Worthon, che arrossì di colpo. “Adelante caballero, adelante!” lo incitò Lolita con tono di voce molto alto, “Venga aqui, ràpido”. Incerto e barcollante, con i pantaloni appena abbottonati e rosso in viso, James Worthon si alzò dalla sua comoda seggiola e mosse il primo passo titubante verso il palco. Lolita lo guardava in modo superbo, e col dito indice della mano destra gli fece cenno di sbrigarsi: “Ràpido! Mas ràpido! Mover las nalgas y las piernas!!”. Appena pose il piede sul primo gradino della breve scaletta i musicisti intonarono di sorpresa l’ouverture della 5° sinfonia di Ludwig Van Beethoven, per una manciata di secondi. Salito sul palco, appena si trovò di fronte a Lolita non riuscì a fare niente di meglio che balbettare, mentre Lady O’Brien incrociò lo sguardo suo con quello di Lolita, e dentro sé stesse, insieme, risero complici.
Lolita gli strinse il mento con la mano destra, quindi gli pose l’indice sotto la mandibola, premendo verso l’alto, così da far sembrare Worthon come un maiale appeso al gancio di un macellaio. “Cosa... cosa devo fa... fa... fare?”, chiese Worthon con la voce tremante.
“No lo entiendo, señor...”, disse Lolita, che in realtà capiva benissimo quello che stava dicendo la sua vittima.
“Io... io...”, cominciò a voce bassa.
“No lo entiendo, habla mas fuerte!!”, gridò Lolita. A quel punto James fece un passo indietro, si girò per scendere dal palco, ma da sotto la sua cinturona Lolita estrasse una corda lunga pochi metri, già pronta con il nodo scorsoio, iniziò a farla roteare. Si mosse di slancio dietro a Worthon, i musicisti fecero un rullio velocissimo con i tamburi, Lolita lanciò la corda che un secondo dopo si strinse attorno al busto del malcapitato (si fa per dire), mentre i piatti metallici fecero il loro classico colpo fortissimo. Lolita piegò le gambe e con forza tirò la corda, a James non restò altro da fare che indietreggiare mentre il pubblico applaudiva e rideva fragorosamente. Si ritrovò a fianco della diva e questa andò verso il bordo del palco, con la mano mandò un bacio al pubblico e poi si rivolse a Worthon: “Caballero, ve gusta quedarse aqui?”, e gli si avvicinò, con una mano gli strinse il collo nella parte posteriore e lo fece inchinare quanto bastò per mettergli un robusto collare con guinzaglio metallico che una delle ballerine aveva prontamente portato. Lolita quindi liberò James dalla corda, e cominciò a passeggiare sul palco tirandoselo dietro, muovendo il braccio libero come in una danza, con una musica perfetta che accompagnava il tutto, quindi si girò di scatto, si mise di fronte a James e, stando in perfetto equilibrio, alzò la gamba sinistra come una sbarra orizzontale, l’avvinghiò con forza attorno alle gambe di James e rise sentendo la sua erezione che continuava. Si mise nuovamente a camminare, poi con tocco magistrale lo tirò ancora a sé stessa, lo fece dapprima inchinare e quindi accovacciare finché non fu a quattro zampe. Ricominciò a farlo girare sul palco. Il momento forte stava per arrivare, infatti con balzo atletico gli salì in groppa, strinse le gambe attorno alla sua pancia e iniziò a spronarlo battendo i tacchi degli stivali sui suoi fianchi: “Adelante, adelante muchacho!!”, diceva con tono molto alto.
“E io dovrei vendere le mie proprietà a quel pagliaccio?!”, disse Margaret guardando Patricia con ilarità, “Ma certo che sì, è un affarone, no?!” continuò Margaret, e risero assieme, voltandosi per un attimo indietro cercando con lo sguardo una persona che, divertita, guardava con attenzione e soddisfazione come Lolita stava umiliando quell’uomo.
James iniziava ad affaticarsi, ma era eccitatissimo, e Lolita comprese che l’arrosto era quasi cotto a puntino. Scese dal suo ‘cavallo’ e con una leggera spinta di piede sul fianco lo fece adagiare sul palco, disteso su un fianco, poi, con un’altra spintarella di piede lo mise supino. “Entonces, estas listo para el final?”, chiese Lolita senza avere risposta, gli occhi di James erano fissi e perduti nei suoi. Senza perdere tempo Lolita si mise a cavalcioni su James guardandolo in volto, poi piegò il membro di lui in maniera tale da sedersi sopra quell’addome che andava su e giù per la respirazione sempre più forte, quindi iniziò a schiaffeggiare il viso di James con i piedi, poteva sentire distintamente i suoi gemiti. Dopo nemmeno un paio di minuti si sollevò appena, passò la mano ad accarezzare quella turgidità pulsante, roteò la testa in maniera provocante ed eccitante.
“Ooohhh...”, iniziò James mentre Lolita sorrideva maliziosamente, “ooohhh... oooohhhhh... aaaahhhhh... aaaaaaahhhhh”, e le sue gambe cominciarono a dimenarsi sempre più rapide... il membro fu elevato alla massima potenza e ne venne estratta la radice, quindi, con l’animo in pace, si ridusse ai minimi termini, e James allargò le braccia come in segno di resa. A quel punto Lolita si alzò in piedi e salì sul corpo supino di James, un piede sul petto e l’altro sull’addome. Una delle ballerine porse a Lolita il suo frustino, e lei iniziò a farlo roteare e quindi sibilare nell’aria.
“Damas y caballeros!”, disse quindi facendo schioccare più volte il frustino, “Abajo mis botas es el alcalde de Togram City!!!”, concluse con tono molto alto tra una miriade di applausi. James Worthon stava lì, come inebetito dentro una nuvola, sotto gli stivali di Lolita, sentiva gli applausi del pubblico, e non immaginava che praticamente tutti gli uomini che stavano lì in quel teatro avrebbero desiderato ardentemente di essere al posto suo. Dopo un paio di minuti Lolita scese da quell’inconsueto piedistallo, quindi porse la mano a James per aiutarlo ad alzarsi, e lui non poté fare a meno di constatare che le braccia di Lolita erano anche piuttosto muscolose. Appena Worthon fu in piedi, dopo qualche secondo, spontaneamente, si mise in ginocchio davanti a Lolita.
“Divina...”, disse volgendo lo sguardo verso l’alto in quei profondi occhi pieni di una dolce e misteriosa autorevolezza. Quindi piegò la testa, s’inchinò e le baciò gli stivali.
“Ohi, chico, por todos los diablos!!!”, proruppe Lolita, “Te gustò mucho, ah?”, dopodiché James si alzò, molto educatamente baciò la mano di Lolita chiedendole il permesso di poter tornare al suo posto, e lei glielo concesse con un ampio sorriso dopo avergli tolto il guinzaglio. James cominciò a scendere quei pochi gradini e Maddok si alzò per aiutarlo, gli sembrava avesse un passo incerto, ma non era così, era solo un po’ confuso. “Ahi ahi ahi... carramba!! Miralo, el clàsico mutuo ayudar entre politicos de la misma categorìa... alcalde ayuda alcalde!!”, disse spontanea Lolita rivolta al pubblico che applaudì quella battuta. Dopodiché lei si pose al centro del palco assieme alle altre ballerine e ai ballerini. “La representaciòn se concluye aqui... buenas noches a todos!!!”. Tutto il pubblico si alzò in piedi salutando con affetto e ammirazione la diva Lolita Montero che contraccambiò con soffi di baci lanciati con le mani, e poco a poco il teatro cominciò a vuotarsi. Lolita scese dal palco per andare a salutare la sua carissima e fraterna amica Margaret O’Brien, le due si abbracciarono forte, poi Lolita abbracciò anche Patricia O’Connor, quindi abbracciò nuovamente Margaret. “Maestra...”, disse sottovoce Lolita a Margaret, quindi la strinse ancora a sé, i loro visi si trovarono affiancati per alcuni istanti. Lolita fece scivolare piano piano le sue mani guantate lungo i fianchi di Margaret, aprendo poi rapidamente la sua borsetta scostandola di poco per infilarci la mano, e anche Margaret accarezzò con tenerezza i fianchi di Lolita. A qualche passo di distanza Worthon e Maddok guardavano disinteressati quelle effusioni. Wilson se ne stava in disparte mentre Patricia iniziò a chiacchierare con lo sceriffo Carlos Fernandez.
Da una delle ultime file una ragazza di media statura, vestita sobriamente, con i capelli raccolti e con portamento signorile, mosse i suoi passi verso il palco. Worthon riconobbe in lei la ragazza della locanda centrale alla quale prima del pranzo aveva fatto pulire i suoi sporchi stivali. Dal modo in cui lei sorrise a Margaret poté intuire che si conoscevano, e che quindi la scelta di Lolita riguardo la sua ‘vittima’ di quella serata non poteva certo essere casuale, ma si rassegnò al fatto di dover accettare che gli era stato reso pan per focaccia, tra l’altro la cosa più importante per lui era concludere l’affare con Lady O’Brien e, oltretutto, a pensarci bene, non era per niente male quello che aveva subìto, avrebbe dovuto perlomeno ringraziare di essere stato scelto.
“Come va Rosalinda?”, chiese Margaret.
“Bene, bene”, disse la ragazza sorridendo ammiccante, “mi è piaciuto molto, davvero, non ho parole per esprimere la mia soddisfazione”, sorrise poi ammiccante a Lolita. “Salve Alice, salve Susan, buonanotte”, disse salutando le gemelle Bradley, due bellissime ragazze bionde di 27 anni, slanciate e forti, ottime pistolere e mandriane, praticamente identiche tra loro, con degli occhi chiari e ammalianti. Solo Susan aveva il ragazzo, il barbiere del paese che era lì con loro: non poteva rinunciare allo spettacolo di Lolita Montero. Anche Margaret le salutò mentre si avviavano verso l’uscita assieme ai Linch, ai quali poco più di un paio di settimane prima era stato tentato di rubare il bestiame quattro giorni dopo che qualcuno ammantato di nero, con un’azione fulminea, aveva alleggerito un forestiero dei soldi che sarebbero dovuti servirgli per comprare la loro tenuta.
Le tre donne coinvolsero poi nella loro conversazione anche il deputato Wilson, mentre Worthon e Maddok si erano già diretti all’uscita seguiti ad una decina di passi da Patricia O’Connor che continuava a parlare con lo sceriffo Fernandez. Appena usciti, i due sindaci si salutarono, James vide che Patricia era ancora alle prese col suo omologo di Vajrennah, e li lasciò parlare in pace, avendo solo cura di accennare a Patricia che sarebbe andato direttamente alla locanda dove aveva affittato per quella notte due stanze singole, una per lui e un’altra per la ‘sceriffa’.
“Ora che si è allontanato posso parlarvi di una cosa incredibile che mi è successa una notte di quasi due mesi fa, poco prima di metà Marzo”, iniziò Carlos Fernandez.
“Vi ascolto”, disse Patricia mostrando vivo interesse.
“Fu qualche giorno dopo la rapina alla diligenza arrivata da Tucson, che trasportava il denaro per l’acquisto della tenuta dei Bradley, prima in teatro hai visto le figlie di Andrew Bradley, le gemelle Alice e Susan... bellissime ragazze, meno male che portano l’iniziale sul cappello, altrimenti, chi le distinguerebbe! La sera della rapina il tizio che aspettava il denaro era proprio qui in piazza, sotto l’altro porticato, tranquillo e pacifico, un tipo che non mi è piaciuto affatto, pareva un avvoltoio in attesa di pasteggiare con un animale ferito a morte nel deserto, i Bradley non se la passavano bene, avendo subìto un furto di bestiame un anno fa circa, prima di portarlo al mercato di Yuma, e puoi ben capire cosa questo ha comportato per loro. Quel tizio, un faccendiere di San Francisco che non capisco quali interessi potesse avere qui, andò su tutte le furie. Il giorno dopo notai che Andrew Bradley non era scosso per la rapina, era ovvio che avrebbe venduto solo per stretta necessità, e le figlie apparivano serene più che mai. Un mio confidente di fiducia aveva sentito poi quel tizio parlare con un altro nel saloon, e aveva detto che l’affare si poteva ancora fare perché due o tre giorni dopo sarebbe accaduto qualcosa che avrebbe messo completamente a terra i Bradley costringendoli a vendere per quasi niente, io ne parlai subito con tutti gli altri allevatori della zona, per poterci capire qualcosa, ma non ne venni a capo di nulla”, spiegò Carlos.
“Sì, capisco, ma dove sta la faccenda strana e incredibile?”, chiese Patricia con apprensione.
“Tre giorni dopo la rapina, la notte tra il 10 e l’11 Marzo”, riprese Carlos, “il maniscalco era nelle vicinanze della tenuta dei Bradley e corse ad avvisarmi che stava succedendo qualcosa di strano. Presi il cavallo e andai lì più veloce che potevo, e quando vi giunsi notai che uno dei cancelli grandi era aperto, c’erano alcune bestie fuori, pareva tutto tranquillo. Sentii un lamento sommesso, mi avvicinai, e trovai uno sconosciuto, certamente dedito al furto di bestiame, legato alla staccionata, sembrava impaurito. Poi sentii altri lamenti e vidi due uomini legati assieme ad un palo come due salami, uno era scalmanato, agitava le gambe e la testa, anche questi certamente venivano da fuori, mi dissi, ed erano ladri di bestiame. Appena mi vide, uno di quei due disse concitato; ‘es el diablo! El diablo!’. Si trattava di tre ladruncoli messicani assoldati da chissà chi. Poi, ecco l’apparizione: poco più in la vidi una sagoma venire verso di me, un cavallo nero con sopra una persona tutta vestita di nero, mi sentii come paralizzato, capii che si trattava del rapinatore solitario descritto dai due testimoni della rapina, e che aveva mandato all’aria gli affari di certi brutti ceffi, ma per me era un fuorilegge. Provai a fermarlo, ma era lui a venire verso di me e quando fu a pochi passi scese dal cavallo con agilità felina, sguainò la spada e mi puntò contro, rimasi bloccato dallo stupore... scorsi un sorriso e, sotto il cappello e la maschera, vidi due occhi ammalianti brillare illuminati da una splendida luna quasi piena, quei tre sono stati ingenui, tentare un furto di bestiame al chiaror di luna! Forse c’era troppa fretta! Bene, quella figura indossava un mantello nero, guanti neri in cuoio e un paio di stivali neri particolari, molto alti e con gli speroni dorati luccicanti. Con precisione infilò la punta della spada tra i bottoni dei miei pantaloni e... zaccc, zaccc, zaccc... tre colpi secchi, via i bottoni e tagliata la cintura: mi ritrovai in mutande! Mi fece un inchino, rinfoderò la spada e con un balzo risalì a cavallo fuggendo veloce. Tirai su i pantaloni, dalla casa dei Bradley stava arrivando qualcuno. Interrogai quei tre, non ne ricavai molto, nemmeno loro sapevano chi fosse il loro capo, comunque li tengo ancora sotto chiave, assieme agli altri quattro per il tentato furto alla tenuta dei Linch, poi vedremo. Si tratta comunque di messicani assoldati da qualche losco personaggio nostrano, ti dico!”. Carlos Fernandez notò che Patricia stava ridendo tra sé. “Credo che abbiamo a che fare con un’affascinante e solitaria ‘cavaliera nera’”, continuò Carlos, “chissà da dove viene! In cuor mio la ringrazio, ma se ne avrò l’occasione, dovrò arrestarla!”.
“Parlate, in realtà, come se aveste desiderio di incontrarla nuovamente, vero?”, chiese Patricia, “Siete un uomo libero, troppi anni che siete solo”, ma Carlos preferì non rispondere, e stringendogli la mano per salutarlo Patricia avvertì un tremore dentro di lui.
Poco dopo uscirono dal teatro Lady O’Brien assieme al deputato Wilson, seguiti da Rosalinda Gomez che salutò con un cenno della mano Patricia che contraccambiò, ovviamente Lolita era rimasta dentro per cambiarsi nel suo camerino, e così anche gli altri del suo gruppo e il gestore del teatro. Dopo i classici saluti di commiato ciascuno andò a casa propria, il deputato Wilson e Patricia O’Connor raggiunsero James Worthon che era già nell’atrio della locanda ad aspettarli.
“Cos’aveva da dirti lo sceriffo Fernandez?”, chiese James a Patricia.
“Niente di particolare”, rispose Patricia, “un normale scambio di idee tra colleghi tutori della legge, tutto qui. Ah... Lady O’Brien mi ha detto che domani pomeriggio sarà nel mio ufficio”.
Poi la quiete della notte si fece padrona della piccola ma animata città di Vajrennah.
* * * Fine prima parte * * *
Nota: pur essendo certi fatti e luoghi di ambientazione in un contesto reale, anche dal punto di vista storico, si fa presente che i nomi dei personaggi e di alcuni luoghi/città e settori merceologici di aziende sono di pura fantasia. Ogni riferimento a fatti non storici realmente accaduti o persone reali od omonime è puramente casuale.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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